Anniversario della Liberazione a Civitanova Marche

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Discorso del 25 aprile 2023

Questo discorso è stato scritto e pronunciato il 25 aprile 2023 dal sig. Vito Carlo Mancino a Civitanova Marche (MC), in occasione della celebrazione del 78° anniversario della Liberazione.

“Ogni anno la stessa storia. Ogni anno un po’ peggio. L’assalto alla giornata simbolo della Resistenza è ormai una stanca tradizione. Il 25 aprile è o dovrebbe essere “semplicemente” la festa della Liberazione dal nazifascismo, la “festa di tutti”. Ancora oggi per una parte consistente di italiani è invece una festa “comunista” o “di Sinistra”. Ma così si travisa la verità storica. È la festa dell’Antifascismo, che era un fronte ampio e comprendeva cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti, anarchici e anche chi non era politicamente schierato. È da quell’alleanza che nacque la nostra Costituzione. Oggi è il giorno in cui si celebra la morte della dittatura e la nascita della democrazia e le contraddizioni di chi voglia relegare ad una sola parte degli italiani hanno storia lunga. Vengono da divisioni ideologiche e vicende politiche che peraltro si è cercato da anni di superare. Parlare del 25 aprile come “festa di tutti” non è mai stato, né evidentemente lo è oggi, un fatto scontato, eppure sono passati ben 78 anni dalla Liberazione. Chi ha evocato quest’anno l’importanza della “festa di tutti”, curiosamente ha aggiunto: “Non solo dei comunisti”. È utile ricordare che la scelta tra nazi-fascismo e democrazia non è e non deve essere una scelta tra Destra e Sinistra, ma tra civiltà e barbarie. Da una parte l’invocazione all’inclusione, dall’altra, la sottolineatura delle parti, della divisione. Inoltre, le roventi polemiche politiche, come i fatti di cronaca che riportano inni a Mussolini e cori razzisti, giustificano il monito del Capo dello Stato a “stringerci intorno ai nostri amati simboli: il tricolore e l’inno nazionale. È un dovere – richiama Mattarella – morale e civile”. È il dovere della Memoria, la Memoria degli eventi decisivi della nostra storia recente che compongono l’identità della nostra Nazione da cui non si può prescindere per il futuro. Ma una parte consistente di italiani è ancora convinta che sia una festa politica, una festa “comunista”. Ma così si travisa la verità storica, perché è la festa dell’Antifascismo che – durante la dittatura – fu un fronte ampio. Il 25 aprile è il giorno in cui si celebra la morte della dittatura e la nascita della democrazia, ma bisogna almeno aprire i libri di storia, se non lo si è fatto alle scuole medie, altrimenti la buttiamo in caciara, come succede da tempo a vari livelli. L’antifascismo era ed è la colonna vertebrale della Costituzione più bella del mondo, la nostra! Il problema vero, forse, è che la destra italiana tutt’ora non si riconosce appieno nei valori costituzionali, ma tutto nasce proprio da lì, dai valori che nascono dalla lotta al nazifascismo. In TV e sui giornali è sempre la stessa solfa e si finisce sempre per accomunare, confondendo spesso lo spettatore, i concetti di libertà e Liberazione. Le testimonianze di chi c’era – per forza di cose sempre più rare – unite all’indifferenza, al revisionismo e alla propaganda, rendono sempre più difficile raccontare la Festa della Liberazione … e lo sarà sempre di più! Proviamo a partire dalle basi, che altro non sono se non i fondamenti del nostro vivere civile. Il 25 aprile non è un’opinione, è l’anniversario della Liberazione d’Italia, festa nazionale della Repubblica Italiana che celebra espressamente la fine dell’occupazione nazista e del regime fascista. È storia, è legge, punto! Non è quindi la festa di una vaga generica “libertà” slegata dalla giustizia sociale, come qualche distratto (siamo gentili) politico di centrodestra (e anche di centrosinistra) ciclicamente prova a raccontare. Non ci sarebbe stata libertà viva in Italia senza la Liberazione, senza quel senso di affrancamento dal Fascismo e dalla guerra che esso stesso volle. Nulla di nuovo, ogni anno parliamo più o meno delle stesse cose, a volte solo per buttare parole al vento, per essere su un palco o solo per una foto con le Autorità. Ma il 25 aprile è tutta un’altra cosa, è – come già detto – il nostro presente e sarà il nostro futuro ma è soprattutto l’evento fondativo della Repubblica Italiana. Una repubblica che mai gli italiani – dopo la monarchica repubblicana nella Roma di fine VI secolo a.C. – avevano assaporato. Re, Imperatori, dominatori stranieri, Papi, di nuovo il Re e poi anche il Duce, in seguito anche affiancato dagli sgherri del Führer governarono L’Italia con il pugno di ferro mentre il suo popolo veniva trascinato in guerre, spesso civili e fratricide. La nostra nuova forma di governo, che oggi diamo per scontata, non lo fu affatto. Come un uomo che fu bambino, una pianta che fu seme, anche lei fu neonata e fragile. Una Repubblica nata negli esperimenti delle piccole, coraggiose ed effimere Repubbliche Partigiane, spesso soffocati nel sangue da parte del piombo nazi-fascista. Ecco a chi si deve la Repubblica, ecco a chi dobbiamo la Democrazia ed ecco perché oggi siamo liberi. Non è folklore, è Memoria! Anche questa diventa sempre più fragile e la si festeggia con un assurdo schema da “par condicio”, dove alle celebrazioni non viene mai fatta mancare qualche feroce critica; come cercare di evitare la presenza del colore rosso oppure delle bandiere delle associazioni partigiane, l’opportunità o meno circa la presenza di quelle della Nato, lo sventolio di bandiere palestinesi contestando quelle israeliane (rappresentanti il sacrificio della Shoah e il ricordo della “Brigata Ebraica”, che sul nostro suolo combatté eroicamente per la nostra Liberazione, al fianco dei nostri partigiani, uniti contro i nazi-fascisti). Giorgio Bocca, partigiano, diceva che “la metà degli italiani è fascista”. Forse non è più vero, forse ormai metà degli italiani semplicemente “non è antifascista”; un problema ugualmente grave, visto che anche la seconda carica dello Stato ha più volte dichiarato orgogliosamente di non esserlo neppure lui! Trent’anni fa solo una destra estrema e inguardabile attaccava questa giornata, ora è in buona (si fa per dire) compagnia. Sindaci hanno negato la piazza all’ANPI esprimendo preoccupazione solo perché gli studenti avrebbero cantato in coro la storica “Bella Ciao” – rendendo quindi “divisiva” la Festa della Liberazione – per poi fare goffamente marcia indietro ripensandoci un po’. Un padre al parco, spingendo la figlia sull’altalena, ha chiesto all’amico: “Ma il 25 è festa, no? Ma che festa è?”. Vengono anche messi sullo stesso piano nazifascisti e partigiani, perché “bisogna ricordare i caduti di tutte le nazioni”, secondo il messaggio rivolto agli studenti proprio da parte del Provveditore Regionale delle Marche. Una Memoria condivisa, insomma. Ma noi non abbiamo nulla da condividere con i fascisti di allora e con quelli che ancora oggi si definiscono tali, in barba alla Costituzione, che di fatto è essa stessa antifascista. Al massimo ci potrebbe essere una memoria comune per chi perse la vita, ma nulla di più! Andare al Campo X a deporre fiori non è una vergogna, farlo il 25 aprile si; sia perché si offende chi è morto per la libertà, sia perché si strumentalizzano solo per dispetto coloro che sono morti perché stavano sulla “riva opposta”. Depongano i fiori anche sotto le lapidi che ricordano partigiani e civili straziati dalla loro barbarie. Forse dopo, al Campo X andremo anche noi a deporre i fiori, però a chi combatté alla pari contro i suoi nemici ma di certo non a chi uccise vigliaccamente civili inermi! L’unica divisione che il 25 aprile fa – intrinsecamente – è tra fascisti e antifascisti, Tertium non datur. Definirsi antifascisti e dirsi italiani è la stessa cosa. Coloro che giurano sulla Costituzione – come le Forze dell’Ordine e le più alte Cariche dello Stato – giurano sull’antifascismo perché, come già detto, la stessa Carta Costituzionale si basa su di esso. La Legge nr. 645 del 1952 (o legge Scelba) dice testualmente all’articolo 4 sull’apologia del Fascismo: “Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 (il disciolto Partito Nazionale Fascista) è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000”, legge che fa parte della XII Norma Transitoria e Finale della Costituzione. Ancora, lo stesso articolo 21 della Costituzione alla fine recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” e più violazione al buon costume che inneggiare alla dittatura fascista, che ha causato lutti e distruzione – oltre che violare anche la moralità del popolo italiano con le Leggi Antisemite del 1938 – non credo possa esistere. Infine, la Legge nr. 205 del 1993 (o legge Mancino) sostiene quanto enunciato dalla Legge Scelba aggiungendo: “È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi ‘come sopra definiti’ è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila. È vietato l’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli ‘di cui sopra’ (sempre appartenenti al disciolto Partito Nazionale Fascista). Il contravventore è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno”. Per questo motivo il Fascismo è una, anzi è “LA” vergogna indelebile della nostra storia. C’è chi attacca la Festa della Liberazione e la lotta partigiana con ogni pretesto. Replicare e infilarsi dentro le polemiche significherebbe fare il gioco di chi la considera una ricorrenza come tante, sulla quale dare anche la propria opinione a sproposito, sulla quale scrivere dimenticabili post su Twitter o Facebook al solo fine di raccattare qualche decina di like in una bolla social irrilevante e – allo stesso tempo – legando sagacemente una giornata dal significato chiarissimo al commento di un’attualità a tutti i costi, spesso falsa o quantomeno imprecisa. Ma il 25 aprile non è nemmeno una ricorrenza, è un fatto storico e non ha bisogno di frasi altisonanti. Abbiamo la possibilità di accedere a documenti vivi, brucianti, limpidi di coloro che, 78 anni fa, di fronte alla morte, non hanno recitato la parte dell’eroe o del superuomo, ma hanno espresso la pacata esigenza di una coscienza morale, la certezza di aver fatto il proprio dovere. È questo il modo migliore per avvicinarsi alla storia della Resistenza. D’altro canto – purtroppo e sempre più frequentemente – si sente invece elogiare Mussolini e i suoi presunti miglioramenti, le “cose giuste”, dati a questo Paese. Ebbene, mi dispiace deludere chi li recrimina, ma sono affermazioni palesemente false e per smentirle basta leggere un paio di libri a caso o navigare sul web; meglio sarebbe recarsi all’Archivio di Stato di Roma a leggere i documenti originali. Lasciando da parte quelle responsabilità del Fascismo note a tutti – la violenza, i soprusi, le prevaricazioni, i saccheggi, le intimidazioni, la guerra, gli eccidi e le deportazioni che costellarono gli oltre 20 anni del regime e che macchiarono per sempre il nostro Paese – vorrei accennare a pochi piccoli fatti, sconosciuti a tanti, che sicuramente faranno rizzare i capelli agli stessi visitatori di Predappio. Sono purtroppo fatti veri, provati da documenti conservati negli Archivi di tutto il Paese e già pubblicati da tempo, non scoperti da me solo ieri. Sono però necessari per raccontare quanto il Duce fosse diverso dall’idea che molti ne hanno ancora oggi. Donnaiolo: le donne erano per il Duce una “gradevole parentesi” nella vita dell’uomo, ma più essi erano “virili e intelligenti” e meno ne avevano bisogno. Mussolini si vantò che il suo primo delitto (ancora ne resta traccia nei terminali di polizia) fu quello di violentare la sua vicina di casa, certa Virginia, oltre che altre giovani donne, tra cui Giulia Fontanesi, il cui marito era militare a Sulmona, addirittura accoltellandola in preda ad un raptus di gelosia. Si presentò al padre di “donna Rachele” con una rivoltella, che minacciò di usare su di loro e su sé stesso qualora non le fosse data in sposa. Poi l’ha tradita con centinaia di donne, tra cui Ida Dalser (dopo averla ridotta sul lastrico), che venne fatta internare su suo preciso ordine in manicomio insieme al figlio – suo e del futuro Duce – Benito Albino, detto “Benitino”, dove morirono entrambi. Del resto a Mussolini piaceva sulle donne la terribile definizione di Papini, “orinatoi di carne”. Combattente: essendo direttore del giornale interventista “L’Avanti”, a Mussolini venne evitato ogni rischio in battaglia ma si prese la briga di lanciare all’alba una granata in una trincea di tedeschi (ferendosi da solo alla gamba) cogliendoli nel sonno. Venne rimproverato per la sua crudeltà dai suoi superiori: “Perché lo hai fatto? Una cosa è uccidere in combattimento, un’altra è ammazzare per il gusto di farlo, fuori da qualsiasi logica, inasprendo così il nemico”. Povero: pur non immensamente ricco come oggi possa sembrare un oligarca russo o uno sceicco arabo, Mussolini si impegnò molto ad incrementare le sue ricchezze – specialmente immobiliari – che lo portarono ad una ricchezza che si stima di circa 2 miliardi di lire (nel 1943), circa 670 milioni di Euro odierni! Onesto: fu implicato nei più grandi traffici finanziari del regime insieme al fratello Arnaldo (regista di un prestito di 600 milioni di lire concesso alla Banca di Milano dalla Dillon-Read & Co.), al fratello di Claretta (Il vero nome era Clarice), Marcello Petacci, a Roberto Farinacci (detentore di un patrimonio di oltre 660 milioni di lire) e a diversi altri gerarchi. Il caso più eclatante sarebbe stato lo scandalo delle tangenti pagate dal regime all’americana Sinclair Oil per le forniture di petrolio. Vi stava indagando un certo Giacomo Matteotti, ma venne ucciso e la borsa con le carte – come in casi ben più recenti – scomparve per sempre. Maestro e innovatore scolastico: questo lo fu davvero, visto che introdusse molti limiti nella pubblica amministrazione e nella scuola … alle donne; nel 1925 vietò loro i concorsi per presidi o direttrici di scuola e l’anno dopo proibì loro anche di insegnare lettere nei licei e materie scientifiche negli istituti tecnici. Tra queste la professoressa civitanovese Gina Cingoli, figlia del proprietario di Palazzo Sforza, successivamente perseguitata anche dalle leggi antiebraiche e che si è sempre prodigata nell’insegnamento dei valori dell’Antifascismo e della Libertà e la sua più giovane concittadina Annita Butteri, scultrice, rivoluzionaria e antifascista, che non avrebbe mai potuto presentarsi ad un concorso per l’insegnamento. Inesistenza di campi di concentramento fascisti: nel 1926, dopo che in Libia e Cirenaica Mussolini ordinò di porre fine alle insurrezioni “senza alcuna preoccupazione umanitaria” e scatenando così un’orda di terrore sui guerriglieri e sulla popolazione civile, il Duce dispose anche che tutta la popolazione nomade del Gebel venisse deportata lungo la costa desertica della Sirte in enormi campi di concentramento circondati da filo spinato. Inoltre, per evitare che potessero fuggire e riparare in Egitto, ordinò anche la costruzione alla frontiera di una fascia di reticolati di filo spinato da Bardia fino a Giarabub. Oltre centomila civili – donne, vecchi e bambini – marciarono, tormentati dalla fame e dalla sete, verso Bengasi; chi non manteneva il passo veniva fucilato sul posto. Nei campi – sovraffollati, con scarsità di cibo e di igiene – chi si mostrava ostile o non obbediente veniva punito con la morte per impiccagione e i corpi restavano appesi sulle forche per giorni come monito (pratica che i fascisti riproporranno insieme ai nazisti dal 1943 al 1945) … vi ricorda qualcosa o qualcuno? Si, proprio Hitler, che allora era ben lontano dal prendere il potere! Campo analogo fu quello di Rab (isola di Arbe) in Croazia e più tardi tanti campi d’internamento provinciali (le Marche e specialmente la nostra Provincia ne sono ricchi), di detenzione o di confino vennero istituiti a macchia di leopardo per tutto il nostro Paese. Nemico della mafia: è vero che Mussolini nel 1925 aveva posto il prefetto Cesare Mori a capo della polizia in Sicilia contro la mafia che, se libera di condurre i propri affari, avrebbe fatto perdere consensi al regime e potere a lui. Ma ben presto il Duce capì – o gli fu fatto capire – che senza il supporto della mafia avrebbe rischiato la perdita del controllo della regione, molto fertile ed economicamente assai importante. Per questo motivo, Mori fu nominato Senatore del Regno nel dicembre dello stesso anno e 4 anni dopo fu rimosso dall’incarico di Prefetto di Palermo per anzianità di servizio. Dopo il suo congedo, vi fu una recrudescenza del fenomeno mafioso in Sicilia e lo dimostrerebbe una lettera a lui indirizzata nel 1931da parte di un avvocato: “Caro signor prefetto, ora in Sicilia si ammazza e si ruba allegramente come prima. Quasi tutti i capi mafia sono tornati a casa dal confino e dalle galere per il condono”. A tal proposito la mafia venne silenziata sui giornali, le estorsioni furono derubricate a rapine e gli omicidi divennero meri delitti d’onore. Costruttore delle autostrade: sotto di lui vennero progettati solo brevissimi tratti come la Milano-Laghi nel 1921 e successivamente la Milano-Bergamo, la Napoli-Pompei e la Milano-Torino (questa ad una sola corsia); la costruzione della rete autostradale iniziò solo nel dopoguerra con l’Autostrada del Sole. Promotore delle pensioni: progetto creato da Crispi nel 1895, ampliato successivamente da Pelloux e reso quasi definitivo da Giolitti nel 1919 … ma allora Mussolini giocava con i manganelli! Bonificatore: dopo aver annunciato il risanamento di 8 milioni di ettari, dopo 10 anni di lavori e spese, Mussolini dichiarò di averne bonificati solo 4, che in realtà erano poco più di 2 e mezzo dei quali 2 appartenevano a bonifiche concluse dai governi ante-1922. Però la cosa più grave e taciuta è quella che Mussolini, nell’ambito di queste bonifiche, anticipò gli esperimenti su cavie umane che i nazisti condussero più tardi su vasta scala; il Duce li fece condurre su contadini e bambini italiani inermi e indifesi (studio di Mark M. Snowden, storico all’Università di Yale). Nonostante Mussolini fosse all’oscuro di cognizioni mediche, nel 1925 autorizzò due medici, i dottori Peroni e Cirillo, a condurre una sperimentazione sulla malaria. I due non erano esperti in materia ma avevano dalla loro la provata “fede fascista” e a Mussolini tanto bastava. L’indagine comprendeva alcune procedure moralmente ripugnanti: la prima era di non somministrare il chinino a un gruppo di  pazienti affetti da gravi forme di malaria e l’altro era di somministrare il mercurio, già dai primi del ‘900 considerato pericoloso nel trattamento della malattia perché non la curava ma aumentava le sofferenze dei malati, portandoli anche alla morte. I criminali esperimenti vennero effettuati su 2 mila uomini – in Puglia a Stornara (FG) e a Santeramo in Colle (BA), mentre in Toscana ad Albarese (GR) – e si protrassero per due anni. La  conclusione fu che il mercurio era davvero deleterio per la cura della malaria … ma già lo si sapeva prima di cominciare! Non si sa con certezza quante persone intanto fossero morte con sofferenze terribili, oltre che inutili. Altro caso di esperimenti su cavie umane finito in tragedia fu quello del 1933 a Gruaro (VE), a quel tempo piccolo comune del Friuli ed oggi parte della città metropolitana di Venezia. Per testare un nuovo vaccino contro la difterite, vennero scelti i bambini del paese. A dire il vero un vaccino esisteva già ed era anche molto efficace, ma purtroppo era di produzione estera e consisteva di 3 somministrazioni. Il Duce voleva un vaccino “autarchico” con una sola dose, che costasse meno e in tempi brevi. La preparazione del test fu a dir poco approssimativa e il batterio venne iniettato ancora attivo e i risultati arrivarono inevitabilmente a breve termine. Paralisi permanenti, menomazioni più o meno gravi e anche la morte delle piccole cavie. Quando Mussolini venne a conoscenza degli esiti della sperimentazione da lui stesso voluta, fece in modo che il regime censurasse la notizia, nessuna inchiesta e nessun colpevole, solo la tacitazione delle famiglie colpite con 7 mila lire (oggi quasi 8 mila Euro). Le povere famiglie accettarono e la strage venne dimenticata. Solo un gruppo di solerti giornalisti locali si mobilitarono in modo che anche di questo capitolo indegno del Fascismo, seppur considerato “minore”, restasse memoria. E che dire di noi? Cosa abbiamo intenzione di fare? Si, proprio oggi, 25 aprile 2023! Dimenticare o no? Se vogliamo davvero condividere la Memoria di quanto accadde durante il Ventennio, discuterne, affrontarne le motivazioni, studiarlo in lungo e in largo, dobbiamo partire da questa frase di Piero Calamandrei: “Il conseguimento effettivo della pari dignità sociale di ogni persona è il programma minimo che la Resistenza ha affidato alla Costituzione”. La Liberazione dal nazifascismo è stato il presupposto essenziale per la nascita dell’Italia repubblicana e la radice dei principi che la animano: democrazia, pace, lavoro, diritti, integrazione, educazione, cultura, e libertà d’informazione. Principi che, attraverso la Carta Costituzionale, da 78 anni si sono sviluppati e consolidati ma che vengono – al tempo stesso – messi continuamente in discussione dalle trasformazioni che, non solo in Italia, segnano il nostro presente. I giorni drammatici che tutta l’Europa sta vivendo, in particolare ciò che avviene in Ucraina, sollecitano le istituzioni e gli enti che fanno parte del nostro Paese – scuola in primis – ad alimentare la conoscenza sul momento fondante della Resistenza, riaffermando l’importanza del suo lascito. Non amo chiamare in causa esponenti politici e istituzionali ma purtroppo, sono spesso alcuni di loro che – con le loro affermazioni a dir poco inopportune – prestano il fianco alle doverose puntualizzazioni. Recentemente, sull’eccidio alle fosse Ardeatine il Presidente del Consiglio dei Ministri ha affermato che furono colpiti cittadini inermi in quanto “italiani”, dimenticandosi che erano tutti antifascisti, ebrei e anche poveri disgraziati che con la politica non avevano nulla a che fare ma che si trovarono in carcere per borsa nera o perché non avevano ottemperato al coprifuoco. Molti di questi vennero consegnati negli artigli dei nazisti proprio dai fascisti “italiani”. Per questo indignano e rattristano anche le parole del Presidente del Senato, seconda carica della Stato, quando afferma il fatto – per poi tirarsi anche lui indietro, colpevolizzando chi glielo aveva suggerito – che i G.A.P. colpirono a via Rasella una banda musicale dell’esercito tedesco formata da anziani. Ma quali anziani? Quale banda musicale? I nazisti suonarono ben altre “fanfare” ai civili inermi di Boves, di Fucecchio, della Benedicta, di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema. Anche nella nostra Montalto vennero tenuti “concerti” le cui note difficilmente potremmo dimenticare! In particolare a Belluno, dove i prodi “musicisti” di via Rasella commisero uno degli eccidi più efferati. La capitale era stata definita “città aperta” per cui non vi sarebbero dovuti essere reparti militari di stanza, ma non fu così. I tedeschi sbeffeggiarono anche questo principio della Legge di Guerra. Il reparto colpito nella centrale via di Roma, proprio per questo motivo era solito marciare cantando. Non solo, si trattava dell’11a Compagnia del III Battaglione del Reggimento di Polizia “Bozen” (solo pochi giorni dopo rinominato in SS-Polizei-Regiment “Bozen”) che, come tutte le forze di polizia (vigili del fuoco e guardiapesca compresi) facevano parte delle SS; reparti che sul fronte orientale – Polonia, Bielorussia, Ucraina e Paesi Baltici – sappiamo di quali crimini furono capaci. In occasione dell’odierno anniversario della Liberazione, rivolgo un messaggio a tutti gli studenti per ricordare l’importanza della testimonianza e della conoscenza della storia. Cogliere l’eredità consegnataci dagli ultimi partecipanti alla Guerra di Liberazione, donne e uomini che hanno “fatto la Resistenza” con tanto sacrificio è per noi un dovere. Se da un lato dunque occorre continuare a ricordare la lotta di Liberazione e trasmetterne la Memoria, è altrettanto necessario allargare il raggio d’azione e ampliare i pubblici ai quali rivolgersi, perché ciò che è stato si trasformi in conoscenza storica viva e vera; da memoria collettiva a valore condiviso da tutti, riconosciuto e da difendere. Non si deve arrestare con il termine dei programmi scolastici lo studio della storia, che dovrebbe renderci cittadini più consapevoli e quindi più liberi. Solo così festeggiare la Liberazione potrà farci sentire ancora più uniti e consapevoli delle preziose conquiste civili che ci sono state consegnate. Proprio la scuola, il faticoso lavoro di studio, l’approfondimento, la ricerca, il confronto e lo scambio generazionale può aiutare anzitutto le giovani generazioni – e non solo loro – a superare tutte le contraddizioni e quel certo clima di disagio che oggigiorno contraddistingue le celebrazioni di quella che dovrebbe essere, ripeto, la “festa di tutti”, dell’intero Paese, della sua Memoria. Memoria è la parola chiave, soprattutto per il mondo scolastico, deputato in modo speciale allo studio e alla trasmissione dei valori tra le generazioni. Non una semplice “consegna” di un pacco da parte di un fattorino che, per quanto prezioso, lo lascia chiuso al destinatario e poi se ne va. Piuttosto si tratta di una consegna “aperta”, che deve coinvolgere tutti in un processo continuo di rielaborazione e conquista di consapevolezze. “Memoria – disse Mattarella a Vittorio Veneto l’anno scorso – è ricordare la tragedia della seconda guerra mondiale, la dittatura fascista, la lotta per la libertà. Festeggiare il 25 aprile significa celebrare il ritorno dell’Italia alla libertà e alla democrazia, dopo vent’anni di dittatura, di privazione delle libertà fondamentali, di oppressione e di persecuzioni. Significa ricordare la fine di una guerra ingiusta, tragicamente combattuta al fianco di Hitler. Una guerra scatenata per affermare tirannide, volontà di dominio, superiorità della razza, sterminio sistematico”. Non è una Memoria “di parte” o rivendicazione di schieramenti. Ecco di nuovo l’importanza di conoscere, di approfondire, di studiare e discutere insieme, per evitare di ricadere in quelle derive sempre in agguato. Perché non capiti mai di barattare la libertà “in cambio di promesse di ordine e di tutela” col rischio di conseguenze nefaste. Ricordare il 25 aprile è una responsabilità per la scuola come per ciascuno di noi, un richiamo forte; educare al confronto, alla tolleranza, al rispetto, all’autonomia personale e alla libertà. Ecco cosa vuol dire studiare, principalmente non prendere per oro colato due parole faziose dette da qualcuno o postate su un social, ma capire se ciò che viene propagandato sia verità o meno, riscontrandolo con testi e soprattutto con fonti storiche. Questa è una cosa che non compete solo ai giovani nelle scuole, ma anche e soprattutto ai loro genitori che con loro devono ancora imparare a discutere e a dibattere. Lasciate perdere quelli che propongono la sdoganata frase da vulgata popolare “la storia la scrivono i vincitori” … e meno male che non l’hanno scritta quelli che non lo furono! Anche molte delle porcherie di chi si trovò tra i vincitori della seconda guerra mondiale (e anche dopo) vennero scoperte, rese pubbliche e solo qualche volta anche punite; l’accaparramento di scienziati nazisti da parte di russi e americani per la “corsa allo spazio” oppure l’utilizzo di ex membri della Gestapo nella CIA, nella Stasi, nel KGB o nel governo tedesco del dopoguerra. Vennero fuori anche quelle di Stalin – terribile dittatore  e alleato dello stesso Hitler fino al 1941 – al quale qualche facilone tende ad accomunarci impropriamente quali “comunisti”, con nostro vivo e motivato disappunto. Per quanto riguarda la stessa Italia repubblicana vanno ricordati il cosiddetto “armadio della vergogna”, il “golpe Borghese” o il “piano Solo”, per non parlare poi degli “anni di piombo” e della “strategia della tensione”, che insanguinarono con attentati e stragi efferate il nostro Paese negli anni ’70. I nodi vengono sempre al pettine e allontanare dalla realtà chi vuole studiare per capire tali eventi diventa un peccato mortale, perché uccide la volontà, l’intelligenza, la costanza e l’obiettività. Ecco perché vi incito a studiare, studiare e ancora studiare, anche se abbiamo i capelli bianchi, anche se abbiamo già un lavoro, anche se abbiamo già conseguito un titolo di studio o se non lo abbiamo per nulla. La conoscenza, come la Libertà, l’Antifascismo, i valori della Resistenza e soprattutto la Costituzione, sono di tutti, di chiunque di noi. A tal proposto mi torna in mente la disincantata considerazione finale della zia di Beppe Fenoglio, scrittore e partigiano, nel suo romanzo “Un giorno di fuoco”: “Chiederò al Signore che ci perdoni tutti e ci illumini, perché tutto il male che capita su queste Langhe la causa è la forte ignoranza che abbiamo”. A Civitanova, la nostra indimenticabile Annita donava ai giovani la Costituzione, personalmente pagata, come tanti libri ai più grandi, anche a me stesso. Nella primavera del 1945, i condannati – spesso giovani, giovanissimi uomini e donne – furono autori di lettere (in verità poveri fogli recuperati alla bene e meglio in quegli ultimi istanti di vita) poco prima di andare incontro alla morte, un plotone di esecuzione oppure un cappio nel quale infilare la testa. Poi questi fogli vennero racchiusi in un celebre libro intitolato semplicemente “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”. Provate ad immaginare le polemiche – non solo provenienti dalla destra più retriva, sia chiaro – se oggi decidessimo di rendere obbligatorio far leggere ai ragazzi quelle pagine. Probabilmente quasi tutti i partiti presenti in Parlamento disapproverebbe senza riserve l’adozione di tale volume a studenti di 13 anni. Le obiezioni? “Troppo duro”, “andrebbe spiegato il contesto”, “manca un altro punto di vista” e via dicendo. Certo, è difficile parlare della Resistenza ai giovani d’oggi. Per i nati nel nuovo millennio è qualcosa di vecchio, di antico, come un film con immagini sgranate, in bianco e nero. La soluzione più intelligente sarebbe lasciar parlare – come noi abbiamo già fatto in passato –  quelle donne e quegli uomini che, prima di trovare la morte, lasciarono quell’ultimo pensiero. Le lettere sono affilate e senza filtri, scaraventano il passato nella nostra quotidianità con la forza e la nitidezza che solo la parola scritta può avere. Leggerle, spendendo così qualche minuto nel giorno della Liberazione, è una buona cosa. “Quando sarai grande capirai meglio, ti chiedo una cosa sola: studia”, scriveva in una lettera alla figlia la partigiana Paola Garelli, poco prima di essere fucilata da un plotone fascista. Aveva 28 anni.

Viva la Resistenza, viva l’Antifascismo e buona Festa d’Aprile a tutti”.

Vito Carlo Mancino

Maggio 2023

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